Quando si è piccoli si ha una sorta di sete di conoscere la vita "precedente" dei propri genitori... alimentata, loro malgrado, dal fatto che non tutto può e deve essere svelato...
La parte della vita del mio papà che maggiormente veniva lasciata in ombra era quella relativa alla dolorosa parentesi della Seconda Guerra Mondiale.
Così, mentre la mamma volentieri ci raccontava di Vassilji, uno dei Cosacchi che erano di stanza nel nostro paese, e ci canticchiava una filastrocca che aveva memorizzato: "Nema kliba, nema cucurusa, nema jaika, nema molokò; musna froho citiri malenki, Italienskj dobra karosci", il papà non riusciva a non farsi prendere dall'emotività e finiva spesso per piangere dei suoi ricordi.
Noi, poi, neanche a farlo apposta, avevamo curiosità di sapere le cose che lui più voleva celare: "Papà, hai sparato?... Papà, hai colpito?..."Alcune cose le potevamo conoscere perchè la nonna, la mamma del papà, analfabeta, aveva conservato tutte "le carte" che le capitavano fra le mani con l'intento di farsele leggere "dal gnò Meni", il suo figlio più piccolo, il mio papà. Così avevamo la raccolta degli scritti che il mio papà aveva spedito a casa dalla lunga prigionia in Marocco, allora francese.
Alcuni episodi, invece, ce li raccontava volentieri, traendone una morale che ci trasmetteva come scuola di vita.
Il primo era legato a un altro uomo del nostro paesino, prigioniero come lui in Marocco.
Questo uomo, Giordano, era stato strappato alla sua famiglia per essere mandato a "servire la Patria". A casa aveva lasciato la moglie e due bimbi piccoli che rappresentavano la sua più grande motivazione per tornare.
Con tutto ciò, avvenne che Giordano trovasse una scatola di sardine... Figurarsi quanto utili potesse essere una razione supplementare di cibo per uomini che sarebbero tornati a casa pesando 35 chili...
Eppure Giordano pensò subito al quel suo compaesano, che sicuramente pativa la fame tanto quanto lui. E lo andò a cercare per condividere con lui quello che considerava un dono del cielo.
Il secondo episodio veniva da noi considerato più "colorito" e glielo facevamo ripetere continuamente.
Gli Italiani erano prigionieri dei Francesi che li gestivano in una sorta di "campo di concentramento a cielo aperto". Di giorno facevamo attività semplici, di notte venivao radunati e si predisponevano al riposo seduti uno accanto all'altro con le proprie ginocchia attaccate alla schiena del prigioniero che avevano davanti e le ginocchia del prigioniero dietro attaccate alla schiena...
Durante lo svolgimento di un'attività, capitò che mio papà infastidisse uno dei soldati francesi che li sorvegliavano.
Il soldato in questione si adirò a tal punto che cominciò a schiaffeggiare mio papà finchè questi cadde al suolo. Non contento, il francese continuò a inveire contro il prigioniero con calci e ancora botte.
Mio papà era un tipo che credeva fermamente nella GIUSTIZIA e davanti a questa evidente ingiustizia ebbe il coraggio di dire al soldato francese:
"Mon capitain, c'est pas finie encore la guere...".
Alcuni giorni più tardi, al capitano francese arrivò l'ordine di trasferimento.
Prima di partire, egli convocò tutti i prigionieri per salutarli e, nel corso del discorso di commiato, ritenne giusto chiedere al prigioniero che aveva picchiato senza motivo di farsi riconoscere, così che egli potesse chiedergli scusa.
Il mio papà non si mosse, perchè nel suo cuore riteneva che facendosi avanti gli avrebbe inflitto un'umiliazione e non voleva farlo.
L'aereo sul quale partì il battaglione francese non giunse mai a destinazione, dato che fu abbattuto...
Le morali di questi due episodi sono talmente evidenti che non serve certo dilungarsi in spiegazioni...